Andare o restare. Uno di quei dilemmi eterni che sembra attraversare lo spazio-tempo rimanendo del tutto illeso. E, come tale, destinato a essere irrisolto.
Tranne se non si decida di cambiare prospettiva, come ha fatto Samuela Pierucci in Vuoto fino all’orlo, romanzo breve pubblicato da Intrecci edizioni con la collaborazione di edillia.
L’autrice – medico anestesista al Careggi di Firenze – non ha guardato quel binomio come a due rette parallele destinate a non incrociarsi mai; ha invece individuato nella possibilità di movimento una strada conciliatrice tra le due cose.
Partiamo dalla fine.
Samuela Pierucci è nata e vissuta per buona parte della sua vita in un piccolo paesino collinare in provincia di Pistoia. La provincia della provincia, per farla breve. E, sempre per essere sintetici, ha trascorso la sua giovinezza in un mondo “piccino” e in bilico tra aspettative e speranze per lo più disattese che ha, in qualche modo, esorcizzato attraverso l’ideazione di un racconto rimasto nel cassetto per quasi un ventennio.
L’ha “rispolverato” in un contesto decisamente diverso, quando buona parte di aspirazioni e desideri erano diventati realtà: quelle parole di adolescente potevano essere guardate con occhi differenti ed essere “filtrate” da una consapevolezza nuova, capace di conferire alle sensazioni la dimensione dell’immagine ed elevarle a significato simbolico e, per questo, “universale”.
Attraverso tale percorso, non tormentato ma nemmeno lineare come ci si aspetterebbe da un’esigenza contingente, è nato Vuoto fino all’orlo, che sin dal titolo rivela la sua natura sottile e ossimorica.
Di cosa parla?
Di un paese immaginario, Mandalchiria, in cui la vita scorre ordinatamente, secondo ritmi e abitudini inossidabili che tanto appagano gli abitanti. L’imprevisto non è contemplato nell’orizzonte di questo luogo e la routine è la regola principale.
Fino a quando un giorno, molto simile alla nostra idea di domenica, un evento inaspettato scuote l’esistenza dei cittadini. Lo spauracchio del villaggio, noto a tutti come Torcimente, fa irruzione durante la funzione religiosa, spodestando il prete dalla sua posizione di predicatore; attraverso lo spargimento di polveri e colori e recitando una filastrocca, immobilizza i presenti e fa cadere il villaggio in uno stato di torpore che si prolunga per due giorni.
Alla ripresa della vita “normale”, l’accaduto diventa tabù per tutti; ma non per un particolare e decisamente assortito gruppo di amici.
Guidato dallo spazzino Almalinda, questo bizzarro aggregato di esseri umani, lucertole e gatti – tutti parlanti – avvia una sorta di indagine sull’episodio per comprenderne l’origine e le possibili ripercussioni sul futuro del paese.
Per farlo, partono da alcuni “miti” del passato leggendoli in funzione del presente e interpretandoli alla luce di un domani probabilmente funesto. Cominciano, poi, a scandagliare le esistenze dei loro concittadini, alla ricerca di collegamenti, traditori, spie o responsabili.
In questo percorso, si fanno protagonisti di eventi fuori dall’ordinario – Almalinda diviene persino eroe per un giorno scongiurando un avvenimento che tutti avrebbero definito “attentato” –, ma si rendono via via conto che la loro indagine, più che “caccia alle ombre”, come voleva essere, non è altro che una sbirciatina nelle vite altrui, pronta a portare a galla la mediocrità di esistenze basate unicamente su ruoli da rispettare e faccende da sbrigare.
«Le unghie servono per lacerare le costrizioni che imprigionano, ma anche per restare aggrappati a qualcosa, se si scivola»: la maturazione di questa consapevolezza – che era necessaria, tanto che gli avvenimenti si riveleranno non proprio casuali (alla sorte va dato un aiutino…) – spingerà i protagonisti a prendere la decisione.
Andare oltre il “confine” o rimanere nel rassicurante recinto, sebbene «vuoto fino all’orlo»?
Samuela Pierucci ha sostanzialmente creato una grande metafora, con una forte attitudine ironica capace di stigmatizzare difetti e vizi sociali.
Muovendosi a metà strada tra favola e romanzo di formazione, l’autrice costruisce una trama lineare, mettendo al centro un elemento catalizzatore – la messa in scena onirica – in grado di creare un movimento, fisico e non, nei personaggi coinvolti.
Personaggi, dai nomi parlanti (Almalinda, il Cupo, l’Errante, gatto Falso, il Famelico, gatto Luce, il Simbolante, Torcimente, Zen…), accomunati dalla latente necessità di liberarsi dalla visione ristretta della vita imposta a Mandalchiria e dall’assenza del coraggio necessario a ribellarsi. Fino a quando non arriva la giusta opportunità per mettere in moto una “rivoluzione” che si sostanzia in azioni timide e insicure, scavando lentamente un solco nei loro percorsi e nelle loro coscienze e innalzandoli a un grado di consapevolezza sempre più elevato e profondo.
Leggendo Vuoto fino all’orlo si ha una sensazione di leggerezza, si acquisisce l’idea che è possibile planare sulle cose e guardarle dall’alto, con un lucido distacco che non si traduce in freddezza verso ciò che ci circonda, ma in una forma di affetto pulito e disincantato.
Contribuisce a questa percezione la scrittura molto ritmica dell’autrice, che detta la cadenza e il tono di lettura da assumere e che compone immagini delicate, squisite, come pause lungo la storia.
Andare o restare non è, allora, una questione di scelta tra due opzioni antitetiche. È chiedersi quale sia il proprio posto nel mondo indipendentemente dal luogo fisico che ci ospita, «perché comunque ogni cosa resta immobile e veloce» al contempo. E perché in fondo, come ha scritto Cesare Pavese (La luna e i falò), «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
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